Il consenso informato in ambito sanitario – parte prima
di Maurizio Campagna
Parole chiave: paternalismo medico – autodeterminazione del paziente – informazione – consenso – rifiuto dell’informazione – rifiuto del trattamento – moduli di consenso – pianificazione condivisa delle cure |
In un passato ancora recente, il medico rivestiva un ruolo di controlloassoluto e soprattutto incontrastato della relazione terapeutica. Le sue conoscenze, infatti, non potevano in alcun modo essere messe in discussione dal malato né tantomeno essere sindacate da un giudice: secondo una nota sentenza della Corte di Cassazione, addirittura, la capacità del professionista sanitario si presumeva dal semplice possesso della laurea (C. cass. 22 dicembre 1925). La volontà del paziente era perciò pacificamente priva di ogni rilevanza nella costruzione del percorso di cura e nell’attuazione dei trattamenti proposti. «Il malato non vuole veramente sapere bensì ubbidire. L’autorità del medico è un gradito punto fermo che lo dispensa dalla riflessione e dalle responsabilità proprie. “Me lo ha prescritto il medico” è la forma più gradita di liberazione». Con queste poche parole, che risalgono agli Anni ’50 del Novecento, il medico e filosofo Karl Jaspers riesce a descrivere un’epoca in cui affidarsi al professionista significava prima di tutto “alleggerire” il carico di responsabilità verso se stessi: il malato, infatti, «non vuole affatto sapere. Se dice il contrario, è perché desidera essere tranquillizzato e non la verità» (K. Jaspers, 2012). L’essenza di quello che viene definito “paternalismo medico” – per cui il medico sarebbe una sorta di tutore del paziente – è riassunta in questa breve, ma efficace riflessione.
I profondi cambiamenti intervenuti nella pratica medica quali la diffusione dell’antibioticoterapia e l’introduzione di tecniche chirurgiche e diagnostiche innovative, insieme ad altri cambiamenti culturali e sociali come la più diffusa scolarizzazione della popolazione italiana hanno di fatto drasticamente mutato l’assetto della relazione. Il segno più evidente di tale cambiamento è stato identificato nell’«emersione del requisito del consenso libero e consapevole del paziente, quale presupposto di legittimità dell’operato del medico», che «costituisce l’aspetto più importante dell’evoluzione normativa, giurisprudenziale e dottrinaria degli ultimi anni, in tema di responsabilità del medico» (M. Rossetti, 2011).
La Corte costituzionale ha affrontato la tematica del consenso informato definendolo l’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario: esso si configura quale vero e proprio diritto della persona e trova fondamento nei principi espressi nell’art. 2 (che ne tutela e promuove i diritti fondamentali) e negli artt. 13 e 32 della Costituzione (che stabiliscono rispettivamente l’inviolabilità della libertà personale e l’impossibilità dell’obbligo di sottoporsi «a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge»). Il consenso informato è la «sintesi di due diritti fondamentali della persona: quello all’autodeterminazione e quello alla salute, in quanto, se è vero che ogni individuo ha il diritto di essere curato, egli ha, altresì, il diritto di ricevere le opportune informazioni in ordine alla natura e ai possibili sviluppi del percorso terapeutico cui può essere sottoposto, nonché delle eventuali terapie alternative; informazioni che devono essere le più esaurienti possibili, proprio al fine di garantire la libera e consapevole scelta da parte del paziente e, quindi, la sua stessa libertà personale», in conformità con il citato art. 32 della Costituzione (C. cost. 438/2008).
La volontà del paziente è diventata dunque progressivamente più importante fino al punto che dal suo consenso libero e informato dipende la legittimità dell’operato del professionista. La punta più avanzata del superamento del paternalismo medico in favore dell’empowerment del paziente è rappresentata in ambito normativo dalla L. 22 dicembre 2017, n. 219 intitolata Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento,che ha introdotto per la prima volta una regolamentazione organica del consenso informato e che definisce le disposizioni anticipate di trattamento in caso di eventuale e futura incapacità di autodeterminarsi. Prima dell’approvazione della L. 219/2017 sono stati i tribunali, soprattutto la Cassazione, a delineare la disciplina di riferimento: tale legge si è limitata a tradurre«in norme una parte saliente» del diritto precedente e può, anzi deve, essere interpretata e integrata nella luce delle precedenti elaborazioni giurisprudenziali (Zatti, 2018).
L’articolo 1 fissa il principio per cui nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge (comma 1). Il successivo comma 3 definisce il contenuto dell’obbligo di informazione. Ogni persona ha il diritto di conoscere le proprie condizioni di salute e di essere informata in modo completo, aggiornato e a lei comprensibile riguardo alla diagnosi, alla prognosi, ai benefici e ai rischi degli accertamenti diagnostici e dei trattamenti sanitari indicati. Il paziente, inoltre, ha diritto di essere informato sulle possibili alternative e le conseguenze dell’eventuale rifiuto del trattamento sanitario.
Tali indicazioni dovranno essere adattate al contesto specifico, tenuto conto in particolare dell’area clinica di riferimento. Un grande contributo alla definizione dei set di informazioni da fornire ai pazienti non potrà che venire dalle Società scientifiche, che già da tempo sono impegnate nell’elaborazione dei moduli di consenso. Un’informazione corretta non è tuttavia sufficiente. Il paziente infatti ha diritto a un’informazione comprensibile per poter esprimere un consenso “soggettivamente informato”. Un’informazione non compresa, equivale infatti a un’informazione non data. Non a caso, il comma 8 dell’art. 1 chiarisce che il tempo della comunicazione tra medico e paziente costituisce tempo di cura. Questa sintetica indicazione è tutt’altro che priva di conseguenze pratiche: innanzitutto qualifica come cura un aspetto della relazione tra medico e paziente da cui sono estranei trattamenti sanitari intesi come interventi sulla persona o somministrazione di farmaci. La comunicazione rientra così a pieno titolo tra le prestazioni professionali cui è tenuto il medico. La ricerca dell’alleanza di cura fondata sulla reciproca fiducia e sul mutuo rispetto dei valori e dei diritti e su un’informazione comprensibile e completa costituisce inoltre un preciso dovere deontologico del medico (art. 20 Codice di Deontologia medica).
Quest’ultimo, nell’esecuzione di un così delicato compito non è più solo. La struttura sanitaria, infatti, pubblica o privata, deve garantire con proprie modalità organizzative la piena e corretta attuazione dei principi della legge, assicurando l’informazione necessaria ai pazienti e l’adeguata formazione del personale (comma 9). Alle strutture sono dunque attribuite precise responsabilità. In questo rinnovato contesto, anche le Associazioni di pazienti dovrebbero poter contribuire attivamente all’attuazione concreta della legge, a partire dalla definizione del patrimonio informativo da trasferire agli interessati, fornendo utili indicazioni sui rischi e benefici dei trattamenti sanitari proposti dal punto vista della qualità della vita. Lo strumento della valutazione multidimensionale di un trattamento sanitario, impiegato per garantire scelte economicamente sostenibili, potrebbe essere adottato in modo altrettanto efficace anche per la definizione di informazioni complete, che comprendano aspetti non esclusivamente collegati ai profili di efficacia clinica.
Un utile strumento, già in uso presso moltissime strutture pubbliche e private, è costituito dalle procedure per la predisposizione e l’aggiornamento della documentazione per la raccolta del consenso informato. In questi processi di “codifica” il ruolo delle Associazioni di pazienti potrebbe risultare strategico nell’ottica di definire percorsi efficaci, in cui la comunicazione diventi elemento fondamentale della cura, come previsto dalla L. 219/2017. Così come altrettanto determinate potrebbe essere il loro contributo nella realizzazione dei progetti formativi obbligatori di cui al comma 9. Il quadro complessivo delineato dalla L. 219/2017 prefigura, quindi, un vero e proprio impegno organizzativo e uno sforzo di una collettività di professionisti, verso il definitivo superamento, anche sul piano culturale, del sistema precedente. Quest’ultimo ruotava intorno alla mera somministrazione di un modulo, spesso neppure predisposto secondo le indicazioni della giurisprudenza. La nuova disciplina contribuisce quindi a “sburocratizzare” l’applicazione pratica del principio del consenso informato, percepito dai protagonisti della relazione come un ulteriore balzello documentale, privo di autonomo e riconoscibile valore.
Al diritto di essere informati non corrisponde un obbligo di ricevere informazioni. Il paziente infatti può liberamente rinunciarvi o, in alternativa, può indicare i familiari o una persona di sua fiducia incaricati di riceverle e di esprimere il consenso in sua vece se il paziente lo vuole. Il rifiuto o la rinuncia devono comunque essere registrati nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico.
La legge 219/2017 chiarisce inoltre che il consenso informato può essere acquisito nei modi e con gli strumenti più consoni alle condizioni del paziente, e quindi anche con un gesto, ma è documentato in forma scritta o attraverso videoregistrazioni o, per la persona che presenti disabilità, attraverso dispositivi che le consentano di comunicare (comma 4). La disposizione distingue chiaramente tra il momento della manifestazione della volontà che non può che essere a forma libera, da quello della sua registrazione. In qualunque forma espresso, il consenso informato è inserito nella cartella clinica e nel fascicolo sanitario elettronico. La richiesta forma scritta è funzionale alla corretta tenuta della documentazione clinica, ma essa può avere anche una funzione probatoria della volontà del paziente, soprattutto nel caso in cui si rendesse necessario nell’ambito un contenzioso giudiziario.
La valorizzazione e il rispetto dell’autodeterminazione del paziente, in negativo, implicano il riconoscimento del diritto di ogni persona capace di rifiutare – in tutto o in parte – qualsiasi trattamento diagnostico o trattamento sanitario indicato dal medico per la sua patologia o singoli atti del trattamento stesso (comma 5). Il professionista è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento o rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale (comma 6). A ben vedere, la volontà di rifiutare si colloca sullo stesso piano della volontà di accettare la proposta del medico come esito del medesimo processo comunicativo, condotto con le stesse modalità e garanzie. Nel caso in cui il rifiuto del malato si riferisca a trattamenti necessari alla propria sopravvivenza, il medico deve prospettare al paziente – e con il consenso di quest’ultimo ai suoi familiari – le conseguenze di tale decisione e le possibili alternative, promuovendo ogni azione di sostegno al malato medesimo, anche avvalendosi dei servizi di assistenza psicologica (comma 5).
L’investimento emotivo e l’impegno comunicativo dei protagonisti della relazione di cura raggiungono la massima intensità laddove in gioco vi sia direttamente il bene vita (Canestrari, 2018), coerentemente con il quadro dei valori di riferimento che la legge intende tutelare: il diritto alla vita, alla salute alla dignità e all’autodeterminazione (comma 1).
La L. 22 dicembre 2017 n. 219 nel tradurre in norme la parte saliente del diritto precedente in materia di consenso informato, avvia un vero e proprio cambiamento culturale inscrivendo il quadro normativo delineato nella relazione di cura e fiducia tra paziente e medico, che si basa sul consenso nel quale si incontrano l’autonomia decisionale del primo e la competenza, l’autonomia professionale e la responsabilità del secondo. L’allargamento della relazione alla fiducia restituisce un tratto umano a un rapporto che negli anni si era deteriorato, alterato dalla mediazione sempre più ingombrante della tecnologia sanitaria e dei nuovi ritrovati farmaceutici, che avevano trasformato il medico da un professionista della cura a un guaritore. Il sanitario aveva commesso l’errore di trascurare i profili relazionali, così importanti in una professione al servizio di persone rese fragili dalla malattia, finendo anche per questo nella spirale del contezioso giudiziario attivato da pazienti divenuti ostili. Molto opportunamente la legge sottolinea che alla relazione di cura contribuiscono, in base alle loro competenze, gli esercenti una professione sanitaria non medici che compongono l’équipe, riconoscendo il fondamentale ruolo di supporto e ausilio, non solo professionale, che questi soggetti rivestono nei confronti dei malati. Se il paziente lo desidera, sono coinvolti anche i suoi familiari o la parte dell’unione civile o il convivente ovvero una persona di fiducia del paziente medesimo. Il legislatore ha delineato una relazione plurisoggettiva e inclusiva.
Il nuovo quadro normativo supera il paternalismo, senza tuttavia modificare il principio ordinatore di qualsiasi relazione professionale: vale a dire l’asimmetria informativa, per cui il medico detentore di un sapere tecnico e specialistico gode di autonomia professionale, alla quale corrisponde un livello di responsabilità anch’essa professionale. Il paziente tuttavia deve poter decidere liberamente, perché informato correttamente, se accettare o meno un trattamento sanitario proposto. Queste due istanze, apparentemente contrapposte, trovano una sintesi efficace nel disegno di una nuova alleanza terapeutica la cui prima realizzazione concreta si ha nella pianificazione condivisa delle cure che può essere realizzata nel contesto della relazione di fiducia tra paziente e medico, rispetto all’evolversi delle conseguenze di una patologia cronica e invalidante o caratterizzata da inarrestabile evoluzione con prognosi infausta (art. 5).
Siamo davvero all’inizio di un nuovo corso.
Spunti bibliografici Stefano Canestrari, La legge n. 219 del 2017 in materia di consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento, in “La legislazione penale”, 19 dicembre 2018 (disponibile on line: http://www.lalegislazionepenale.eu/wp-content/uploads/2018/12/Canestrari-approfondimenti-LP.pdf, ultima consultazione 8/05/2019) Cristiano Cupelli, Consenso informato e disposizioni anticipate di trattamento: dai principi alla legge?,in “Diritto Penale Contemporaneo”, 13 marzo 2017 (disponibile online https://www.penalecontemporaneo.it/d/5282-consenso-informato-e-disposizioni-anticipate-di-trattamento-dai-principi-alla-legge, ultima consultazione 8/05/2019) Karl Jaspers, Il medico nell’età della tecnica, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012 Ivo Quaranta, Mario Ricca, Malati fuori luogo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2012 Marco Rossetti, Responsabilità sanitaria e tutela della salute, in “Quaderni del Massimario”, Corte Suprema di Cassazione, 2 (2011). Paolo Zatti, Spunti per una lettura della legge sul consenso informato e DAT, in “Responsabilità medica. Diritto e pratica clinica”, 31 gennaio 2018 (disponibile online: http://www.rivistaresponsabilitamedica.it/wp-content/uploads/2018/01/paolo-zatti-spunti-per-una-lettura-della-l-n-219-2017.pdf, ultima consultazione 8/05/2019) |

Maurizio Campagna (Ferrari Pedeferri Boni Studio Legale Associato)
Avvocato, Dottore di ricerca in Istituzioni di Diritto pubblico. Si occupa di Diritto sanitario e Farmaceutico. Autore di pubblicazioni scientifiche e divulgative in tema di Diritto sanitario, Diritti sociali, Regolazione dell’economia, Organizzazione sanitaria. È consulente di Associazioni di pazienti, Ordini professionali, Associazioni di categoria in ambito sanitario. È docente presso Master universitari e corsi di formazione.

Ferrari Pedeferri Boni Studio Legale Associato
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